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Intervista a Susanne Wollowski

"Il materiale da te adoperato è sicuramente un aspetto peculiare e originalissimo del tuo lavoro. Qualcuno ha fatto un parallelismo tra i tuoi Pansen e l'uso del grasso nelle istallazioni di Joseph Beuys. Dietro la scelta di Beuys c'è un aneddoto preciso che lo avrebbe portato all'uso di quel materiale. Nel tuo caso dove e come è avvenuto l'incontro con la trippa?"

"Il primo contatto con questo materiale risale a qualche anno fa durante un soggiorno a Barcellona. Mi trovavo al mercato e sin dal primo momento in cui il mio sguardo ci si è posato sopra, la trippa, proprio per la difficoltà immediata che si ha nel classificarla come materiale, mi ha affascinato. In mezzo agli altri pezzi di carne sanguinolenta e dall'aspetto ripugnante la trippa, con la sua struttura insolita ed il colore bianco abbagliante, sembrava provenire da un altro mondo. È l'ambivalenza insita in questo materiale che più mi affascina e lo rende per me unico: è il contrasto tra l'essere una materia organica dall'odore forte e sgradevole ed avere però un aspetto pulito, bello, raffinato."

"Il tuo lavoro implica un processo lungo e laborioso dove confluiscono elementi diversi come artigianato, design e l'atto performativo. Quanto impieghi a creare una tua opera e quali sono le fasi principali?"

"All'inizio di ogni mio lavoro c'è il concetto grafico, l'elaborazione della composizione e lo schizzo del vestito. Poi segue la cucitura del vestito. Questa fase deve avvenire all'insegna della massima velocità per via della facile e rapida alterabilità della trippa. Il materiale viene quindi lavorato in diverse sedute ed in tempi diversi, e ogni volta deve essere ricongelato. Il passo successivo è parlare con il fotografo del tipo di composizione che voglio ottenere. Infine indosso i vestiti, mi siedo davanti alla camera ed entro in scena. Di solito a lavoro terminato il materiale si presenta già lievemente deteriorato ed è necessario quindi sottoporlo a trattamento per recuperarlo."

"Come mai la scelta di immortalare un lavoro così lungo e complesso in uno scatto fotografico e di non ricorrere ad altri mezzi espressivi più processuali, come il video o la performance?"

"Ho scelto la fotografia come prodotto finale perché voglio evitare l'effetto shock che un contatto diretto con questo materiale, per via del suo odore forte o del suo effetto sgradevole, potrebbe causare. Con questo mezzo mi è possibile creare una composizione perfetta, la cui natura doppia e ambivalente emerge e si rivela allo spettatore solo in un secondo momento."

"La fanciulla quasi angelicata dei tuoi ritratti non sembra avere molto in comune con la donna contemporanea veloce, stressata, molto pratica e poco eterea. La scelta di eludere il presente e di rifarti al passato, in particolare al gusto estetico del Rinascimento, è una presa di posizione contro il presente o una scelta di natura estetica?"

"Ho scelto il Rinascimento perché è in questo periodo che per la prima volta il cittadino diventa soggetto principale del ritratto. In questo periodo, soprattutto nella pittura fiamminga, si voleva mostrare, attraverso una rappresentazione precisa, pulita e non imbellettata del volto, l'anima del soggetto ritratto. Gli occhi in questo senso erano la parte più importante. Non voglio in ogni modo incasellare i miei lavori in un preciso momento storico e vedo la donna dei miei ritratti in qualche modo avulsa dalla vita di tutti i giorni o da un preciso contesto sociale. Ciò che m'interessa metterne in evidenza è lo stato d'animo, la personalità e l'aspetto interiore in sé."

"Come reagisce il pubblico ai tuoi lavori. Hai qualche aneddoto in proposito da raccontare?"

"Da quanto mi è stato riportato dalla mia gallerista Henrike Höhn, ci sono state anche reazioni piuttosto estreme da parte del pubblico. Ad esempio alcuni clienti e frequentatori abituali della galleria si sono rifiutati di entrare per visitare la mia mostra ed erano inorriditi dai lavori con la trippa. Le reazioni comunque in generale sono diverse e molteplici e in questo senso il background culturale del pubblico ha una grande influenza. Ad esempio durante l'Arte Fiera a Bologna non c'è stata nessuna reazione di terrore da contatto con le mie opere."

"Come gli azionisti viennesi degli anni sessanta/settanta lavori con le budella, le interiora, le parti disgustose e nascoste che normalmente nessuno vuole vedere. A differenza degli azionisti però, che si abbandonavo alle azioni più estreme e splatter, tu trasformi la trippa in qualcosa di bello, pulito, soffice. Si può parlare di una sorta di denaturalizzazione del materiale?"

"Penso che alla base dei miei lavori ci sia un atto molto estremo che è il trasformare le parti interne di un essere vivente nella mia propria seconda pelle o abito protettivo. Il superamento dell'estraneità con il materiale avviene nel momento della lavorazione. È in questa fase che mi approprio del materiale e familiarizzo con esso. Nonostante questa appropriazione rimane comunque un senso di estraneità e di insicurezza. Anche se nei miei lavori alla fine sono la bellezza e la pulizia del materiale a prevalere, mantengo l'aspetto animalesco ed organico."

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L'intervista a Susanne Wollowski e l'articolo "Inside Out", a cura di Elena Basteri, sono apparsi sul sito tedesco di cultura contemporanea StylesReportBerlin.com ed il testo è stato qui ripubblicato parzialmente e leggermente rielaborato sotto licenza Creative Commons.


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